Concluso il resoconto sulle legioni fantasma di Costantino lasciamoci alle spalle l’area rurale di Saxa Rubra per avvicinarci a Roma.
La tappa successiva é una delle zone più frequentate dalla movida romana, nugoli di giovani, giovanissimi e meno giovani vi sciamano alla ricerca di svago e spensierata euforia vagando di locale in locale. Il luogo in questione è la riva destra del Tevere a Ponte Milvio e la presenza di cosi tanta vita lascia ben poche speranze di poter assistere ad una benché minima apparizione spettrale; eppure nei tempi andati, quando la frequentazione del posto era limitata a qualche gregge e pochi sparuti pescatori il suo aspetto doveva essere non troppo rassicurante.Al di là del fiume infatti iniziava l’aperta campagna e la natura prendeva il sopravvento con ampie zone di vegetazione selvaggia, bestie selvatiche e genti rustiche se non proprio briganti. In sintesi per il popolo di Roma, con le sue credenze e superstizioni, Ponte Milvio, poteva benissimo sembrare l’anticamera di un mondo inquietante e misterioso permeato da spiriti maligni e presenze soprannaturali. Fu così che nacquero aneddoti sinistri come quello, già riportato, sul fantasma dell’imperatore Massenzio o su quello del carro indiavolato della Pimpaccia.
Questo personaggio e il suo cocchio infernale sono stati sicuramente lo spauracchio di tanti bambini capricciosi fino alla fine dell’ultimo secolo quando, una più moderna concezione dell’intrattenimento, ha condotto tali leggende all’oblio.
Ma veniamo alla cronaca: il 26 maggio del 1592 (l’anno resta incerto) nasce a Viterbo, dal facoltoso capitano Sforza Maidalchini, funzionario della Dogana pontificia, e dalla nobildonna viterbese Vittoria Gualtiero, la piccola Olimpia.
Conclusa la sua formazione scolastica Olimpia è pronta, per convenienze ereditarie, ad una rassegnata vita religiosa, ma la giovane si oppone e, sedicenne, convola a nozze con Paolo Nini, l’ultimo rampollo di un’importante famiglia viterbese.
Il matrimonio dura pochi anni il consorte muore lasciandola giovane erede di una cospicua fortuna. Ciò le da modo di entrare nell’esclusiva cerchia aristocratica romana. Qui fa la conoscenza del ben più anziano e facoltoso Pamphilio Pamphilj, un cinquantenne aristocratico in cerca di moglie. La ragazza non si lascia sfuggire tale occasione e con la seconda unione accede ai titoli e ai beni della casata Pamphilj.
Seguono anni di vita agiata nei quali Olimpia da prova di una notevole abilità nel gestire e investire ingenti somme di denaro nonché di trarre il maggior profitto dalle occasioni che le si propongono. Al fratello di Pamphilio, il cardinale Giovanni Battista Pamphilj, non passano inosservate le doti (e forse le grazie) di Olimpia, che diviene ben presto una preziosa consigliera per l’alto prelato. Grazie a questo ruolo chiave Olimpia espande la sua area di potere ponendola in una condizione di estremo vantaggio. Ma la sua fortuna non finisce qui. La morte del marito Pamphilio, nel 1639, la rende unica titolare delle incredibili ricchezze e un maggior legame con il cognato che, nel 1644 viene eletto Papa con il nome di Innocenzo X. Tale evento non fa che aumentare esponenzialmente il già grande potere della ricchissima Maidalchini.
Fiera, ambiziosa e potente, molto potente, la nobildonna ricorre a non pochi soprusi per trarre profitti ovunque ve ne siano esercitando la sua tirannia anche nei confronti del popolo. Ed è proprio dal basso della plebe che muovono le prime diffamazioni riguardo al connubio sacrilego tra i due potenti cognati/amanti.
Ma il coro di insulti e le pasquinate non si limitano solo a questo. Il suo nome viene storpiato in un dispregiativo “Olimpiaccia” e irriso con un ulteriore e dissacratorio diminutivo… “Pimpaccia“.
Fioriscono gli aneddoti sul conto della nobildonna, da quelli più turpi a quelli di spensierata goliardia. Ma quello che ci interessa riguarda una Olimpia così avida di denaro da rubare i soldi allo stesso papa, l’artefice delle sue fortune.
Un grande forziere colmo di monete d’oro e preziosi, è posto al sicuro sotto il letto del pontefice morente. Come una fedele perpetua, la Pimpaccia, assiste per giorni il cognato in agonia, ma giunta l’ora del trapasso, la donna afferra il pesantissimo forziere e inizia a tirarlo a se con immane sforzo, ma le tonnellate d’oro non si muovono.
Allora disperata la viterbese vende l’anima, e implora i peggior diavoli dell’inferno, che l’aiutino a portar via oro e preziosi da sotto il capezzale. Presto detto il forziere e la Pimpaccia si ritrovano in una carrozza nera di fumo e rossa di fiamme tirata da cavalli scheletrici. L’orrido cocchio corre all’impazzata per i vicoli e fugge dal papà e dalla santa chiesa, fugge da Roma.
S’affretta sulla via Flaminia, raggiunge Ponte Milvio con risate sguaiate, sicura di aver ingannato il Papa, i diavoli e tutti i santi, ma a metà ponte precipita giù nel fiume, e il peso la trascina a fondo.
Pimpaccia è morta, la sua anima è perduta ma il suo spirito dannato ancora lo si vede correre qua e là per Roma.