Acheter des stéroïdes anabolisants

Lasciandoci alle spalle Sant’Ivo alla Sapienza e attraversando Corso Rinascimento entriamo nel rione Parione. Cosa è un rione? Si, in effetti da quando siamo entrati nelle mura di Roma, aimè non ve ne ho mai parlato. Non mi dilungherò ora su questo argomento ma sappiate che Roma, o meglio il centro storico di Roma, è suddiviso in 22 zone definite appunto “rioni“. Questo termine trae il suo etimo dall’antica suddivisione in regioni che, in età regia e poi imperiale, dava una organizzazione urbanistica alla città.

E tanto per la cronaca, da quando abbiamo varcato porta Flaminia siamo transitati in almeno quattro rioni e per l’appunto: rione Campo Marzio, rione Colonna, rione Pigna e rione Sant’Eustachio. Il rione Parione è il quinto che ora andremo a visitare, (per avere un quadro visivo dei nostri itinerari vi consiglio di consultare la nostra SLeF Map di Roma).

Attraversando Corso Rinascimento, come scrivevo poc’anzi, entriamo nel rione Parione e oltrepassando l’imponente fila di palazzi accediamo direttamente dentro una delle piazze più amate e visitate del mondo. Si tratta di piazza Navona, un ampio spazio di 14,850 metri quadrati dall’inusuale forma allungata. In effetti questa piazza misura 275 metri di lunghezza per 106 di larghezza; questo perché sorge sulle fondamenta dell’antico stadio di Domiziano e da esso trae forma e misure. Per chi non lo sapesse lo Stadio è una misura vicinissima ai nostri duecento metri e proprio in tale distanza (e le multiple di essa) si misuravano gli antichi greci a Olimpia; tuttavia Stadio era anche l’appellativo del luogo dove si svolgevano le gare di corsa, e i greci attribuivano a tali competizioni un valore sacro. Furono i romani, amanti della cultura ellenica, ad importare questa attività e dedicare ad essa questo luogo. I resti di questa magnifica struttura sono visibili sul lato nord presso piazzo di Tor Sanguigna e visitabili nel sottostante museo dello stadio di Domiziano, nei sotterranei di Piazza Navona.

Anche il nome della Piazza deriva da una storpiatura del termine “agone” che in greco antico significa gara, competizione.

Non fa eccezione, a quanto si è detto, neanche la bellissima chiesa di Sant’Agnese in Agone che, con il suo nome,  suggerisce l’antica vocazione agonistica del luogo. Questa basilica fa bella mostra di se sul lato occidentale della piazza e, insieme alla monumentale fontana dei quattro fiumi, è un chiaro riferimento visivo per chi si appresta ad entrare in quest’area cosi vasta, specialmente in passato, quando la folla e i banchi dei mercati chiudevano la visuale…

L’intitolazione a sant’Agnese fa riferimento al martirio subito da una devota dodicenne cristiana proprio in questo Stadio durante l’ultima grande persecuzione ad opera dei tetrarchi Diocleziano, Massimiano, Galerio e Costanzo nel 303 d.C. La leggenda vuole che Agnese, figlia di patrizi dediti al culto cristiano, volle dedicare la propria verginità a Dio. Ciò scombinò i piani matrimoniali di un giovane rampollo invaghitosi di lei. Per vendicare il proprio onore riferì il fatto al padre alto prefetto imperiale. La giovane Agnese, colpevole di aver rifiutato le attenzioni del giovinastro e di essere cristiana, fu condannata alla nuda esposizione; ovvero ad essere legata nuda per il sollazzo e la derisione della folla. Ciò nonostante nessuno poté ammirarla in tali condizioni perché i suoi capelli iniziarono a crescere a vista d’occhio coprendole il corpo, e a chi tentava di avvicinarla per tagliarne le chiome cadeva tramortito. L’insuccesso della condanna provocò sdegno nel funzionario che condannò Agnese al postribolo rendendola di fatto una schiava sessuale, ma anche qui le cose non andarono meglio per il Prefetto. Il Dio cristiano si era frapposto tra la giovane  e chiunque volesse farle del male. Nessuno osò mai avvicinarsi per violarne la verginità. Ma il martirio non tardò ad arrivare e Agnese venne giustiziata per sgozzamento ovvero il taglio della gola. Per questo la tradizionale simbologia a lei attribuita fa riferimento all’agnello sacrificale ugualmente immolato tramite il taglio della gola. Anche il nome “Agnese” deriva dal latino “agnus” agnello, l’animale simbolo del sacrificio. Il riferimento alla verginità, all’innocenza, e al candore di Agnese non sono che la trasposizione del simbolismo sacrificale del capro o agnello ebraico e della sua tipica revisione cristiana attribuita al Cristo immolatosi per i peccati dell’umanità.

Nel 1644, quando Giovan Battista Pamphilj  fu eletto Papa con il nome di Innocenzo X, la piazza cambiò volto per sempre. Dalla rustica spianata terrosa qual’era i Pamphilj vollero ricavarne una mirabile esedra urbana per l’accesso al loro magnifico palazzo. In particolare ci fu una esponente di tale famiglia, che si adoperò per rendere grandiosa questa piazza.

Si bravi! Se avete pensato a Donna Olimpia, avete indovinato! Infatti Olimpia Maidalchini, conosciuta anche con il nome di Pimpaccia, si prodigò molto per riaffermare l’antico casato dei Pamphilj. La sua grande ambizione, il suo arrivismo e il potere derivatole dallo stretto rapporto con il pontefice Innocenzo X suo cognato, diedero degli esiti che ancora possiamo vedere in questa magnifica Piazza.

La Fontana dei Quattro Fiumi

La Fontana fu il primo grande intervento estetico che Olimpia Maidalchini/Pamphilj commissionò a Gian Lorenzo Bernini. Si dice che l’artista, per accaparrarsi tale incarico, donò alla nobildonna un modellino della fontana in argento, alto ben centocinquanta centimetri. Diceria o no questa circostanza potrebbe essere verosimile, fatto sta che a partire dal 1648 Bernini produsse in poco tempo una impressionante quantità di schizzi e modellini della futura fontana. Ben presto, tutto questo lavoro preparatorio fu presentato ad Olimpia e sua cognato il Pontefice, mostrando una trionfale esposizione allegorica dei quattro fiumi più grandi fino ad allora conosciuti. 

Un ampio vascone ellittico, che simboleggia le acque degli oceani, è sovrastato da un poderoso gruppo marmoreo che allude ai continenti. Quest’ultimo presenta quattro blocchi che salgono congiungendosi tra loro in un unico vertice il quale fa da base all’imponente obelisco Agonale.

L’impressione è d’avere di fronte una montagna con quattro versanti, ciascuno dei quali riversa acqua nel vascone sottostante come una foce nel mare. A sottolineare tale idea, il Bernini pone su ogni blocco un gigante di marmo, ovvero la rappresentazione umanizzata di un fiume.

Ma quali sono questi fiumi?

L’artista scelse i fiumi più imponenti dei quattro punti cardinali del globo terrestre. Per le regioni del nord, il Danubio, il fiume più lungo d’Europa e della cristianità. Lo si riconosce perché tra tutti è l’unico che guarda lo stemma pontificio sostenendolo e difendendolo. Nel periodo storico in cui fu concepito il progetto di questa fontana, L’Europa era considerata la tutrice della cultura occidentale, la protettrice della fede cristiana e Vienna (bagnata dalle acque danubiane) quindi per estensione l’impero Austriaco era l’estremo baluardo contro la temuta fede mussulmana. Il Danubio è inteso quindi come ideale confine territoriale tra le due grandi culture avversarie, islamica e cristiana, ma anche un’importante via commerciale per sostenere economicamente l’intera comunità cristiana d’Europa e intrattenere rapporti diplomatici con l’Asia e le culture orientali.

Girando intorno alla fontana in senso antiorario troviamo il Gange, il lungo fiume indiano che nasce nelle regioni settentrionali dell’India e, fluendo verso sud-est lungo le pianure alle falde dell’Himalaya, sfocia nel golfo del Bengala. Davanti a noi il gigante ha vari attributi per identificarlo come il fiume asiatico. Un remo di Bambù nella mano sinistra, una lunga barba e un’acconciatura molto simile ad un turbante. Sotto di lui un drago; tipico animale simbolo della cultura asiatica.

Proseguendo nel giro troviamo un altro gigante con un drappo che ne copre la testa e un cilicio sulla coscia sinistra. È il fiume Nilo, il corso d’acqua più lungo del mondo, che dal centro Africa (nella regione dei grandi laghi) discende verso nord per sfociare nel mar Mediterraneo. Il gigante Nilo, con quel drappo afferma che le sue sorgenti sono sconosciute, (Bernini e i suoi contemporanei ancora ignoravano il luogo ove il Nilo avesse le sue sorgenti). Tuttavia, con una mia libera interpretazione, il drappo potrebbe alludere al distacco dalla fede cristiana e conseguente perdita della luce sapienziale da parte dei paesi dell’africa. Essi conobbero per primi il verbo di Cristo ma lo rinnegarono abbracciando la fede islamica. Anche il cilicio penitenziale è parte del simbolismo, infatti è uno strumento per fare ammenda dei peccati tramite il dolore. In quest’ottica il drappo esprime anche la vergogna di popoli che hanno abbandonato Cristo per altri credi. Vi è inoltre un leone nell’atto di bere, ed una palma sferzata dal vento, a rimarcare il riferimento all’Africa.

Il quarto ed ultimo Gigante è la personificazione del Rio della Plata il fiume che, in quell’epoca, si riteneva essere il più grande e rappresentativo delle Americhe. Questo fiume argentino è in realtà un ampio estuario creato dalla confluenza dei due fiumi Uruguay e Paranà. Di fatto resta ancora dubbia la scelta di chiamarlo rio anziché più appropriatamente golfo.

Il gigante che lo personifica ha indubbiamente l’aspetto di un moro d’Africa, ovvero uno schiavo deportato dai suoi luoghi d’origine. In effetti quasi tutti i porti atlantici del sud America erano gremiti da schiavi africani tanto da farli apparire come l’etnia più comune di quei luoghi. Come qualsiasi altro bene commerciale, gli africani d’America, erano uno dei simboli della ricchezza che proveniva da questi luoghi… e proprio un mucchietto di monete vicino al gigante rammenta questo concetto di terre lontane e “mitiche”  dove ogni cosa è pronta e disponibile per chi voglia conquistarla. Un animale immerso nell’acqua, alle spalle del gigante fluviale d’America, spesso è identificato con un coccodrillo. Verosimilmente è la fusione di un alligatore e un armadillo, una fantastica”chimera” tratta dai racconti dei primi naturalisti ed esploratori che tornavano dai loro viaggi oltre oceano.

La rivalità tra il Bernini e Borromini

La presunta rivalità tra Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini ha mescolato nella verità storica un mucchio di frottole che, nella fontana dei quattro fiumi, trovano la loro maggiore fama. In effetti si racconta che, con il loro atteggiamento, due delle grandi statue del monumento del Bernini sbeffeggerebbero la solidità e l’estetica di Santa Agnese in agone del Borromini. In dettaglio, la statua del Nilo si coprirebbe il volto non solo per i motivi già detti sopra, ma anche per non essere obbligata in eterno a guardare la chiesa antistante tanto è brutta e sgraziata. Il Rio della Plata invece alza un braccio per proteggersi da un possibile crollo della chiesa. Tutto ciò è sicuramente divertente da raccontare a ignari turisti, ma basta confrontare le date di edificazione dei due monumenti per accorgersi che tutto ciò è pura fantasia. Di fatto la fontana venne ultimata e inaugurata  nel giugno del 1651 quando la chiesa di Santa Agnese non era neanche in fase progettuale. Solo nel 1652 si ebbe un primo progetto della chiesa ad opera di Girolamo Rainaldi  al quale subentrò in seguito Borromini, nel 1653

La mano fantasma…

Ma ora incamminiamoci verso via di S. Agnese in Agone, una stretta via al lato della chiesa. Qui una leggenda vuole, che nelle notti di plenilunio, si possa vedere la sagoma di una mano dietro i vetri di una finestra.

La mano “fantasma” è quella di Costanza De Cupis nobildonna romana che, famosa per la sua grazia ma ancor più per la bellezza delle sue mani fu oggetto di poesie e stupor di popolo. La notorietà di Costanza e delle sue mani fu tale da indurre un artigiano a chiedere ed ottenere di riprodurre una delle due mani in un calco di gesso. Mastro Bastiano alli Serpenti (che si presume dovesse avere bottega in via dei Serpenti) espose il calco nel suo studio com’era uso fare in quel periodo da tutti gli artigiani. Grazie a questa esposizione la fama delle mani di Costanza crebbe ancor più dando il via ad un vero e proprio pellegrinaggio di ammiratori. Oggi li chiameremmo follower ma all’epoca ciò (siamo nei primi anni del VII secolo) suscitava sdegno e riprovazione tra il clero e i ben pensanti. Il diffondersi di tanta ammirazione verso una spudorata esibizione della propria vanità attirò l’attenzione di un frate domenicano di San Pietro in Vincoli che commentò il calco dicendo che la mano riprodotta era così bella che se fosse stata di persona viva avrebbe corso il rischio d’esser tagliata per invidia o gelosia.

A sentire tale commento Costanza iniziò a temere non poco la riprovazione divina e clericale di questo crescente fanatismo. Lei si era lasciata tentare dal Maligno e le sue mani erano uno strumento diabolico per allontanare la gente dai reali motivi di fede e adorazione. Ironia della sorte, un piccolo incidente come la puntura di un ago, condusse ad una brutta infezione la mano di Costanza. Nessun tentativo medico riuscì ad evitare l’amputazione dell’arto ormai compromesso dalla cancrena,  ma anche questo drastico intervento non scongiurò il diffondersi della setticemia che presto condusse a morte Costanza De Cupis.

Il pretesto per attribuire tale triste fine all’ira divina fu subito raccolto dai predicatori per condannare i peccati di vanità e superbia. 

Oggi, ciò che resta, di Costanza è il ricordo di un’epoca bigotta e sognatrice, timorata e irriverente e di una arretratezza medica che poteva costare cara anche a chi aveva risorse per potersi ben curare.

In una notte di luna piena, alzando lo sguardo verso una finestra di questa via, una mano benevola ci saluta e ci ammonisce di non ambire a troppi follower… 

L’illustrazione che correda questo articolo è realizzata in esclusiva per RomaStorie da Marco Sindici.

About the author

Romano di nascita, amo leggere e disegnare sin da bambino e ho letto e disegnato qualsiasi cosa mi facesse volare via con la fantasia. I libri, le illustrazioni, il cinema e le passeggiate sono la mia "isola che non c'è". Ho sempre cercato di frequentare persone interessanti, cose inconsuete e luoghi inusuali, che potessero insegnarmi qualcosa o distrarmi dalle banali futilità quotidiane. Così facendo ho avuto modo di conoscere una miriade di esseri meravigliosi, posti fantastici e cose indicibili e tutt'ora, che ho passato i cinquanta, ancora vado a ritrovare la mia isola. Ma non serve andar chi sa dove per trovare un'isola che non c'è; esistono isole anche a Roma, basta saperle cercare. È con un poco di cuore e un pizzico di fantasia che si compie la magia.

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